La Valmarecchia è una terra che non finisce mai di stupire: è la culla di borghi in cui si può ancora assaporare la Romagna verace, il prodotto di semplicità, paesaggi mozzafiato e persone cordiali. Lo scorso weekend abbiamo deciso di percorrere i luoghi della nostra infanzia, dove sono cresciuti i nostri antenati prima di trasferirsi in città.

La nostra prima sosta è stata Montebello; invece di fiondarci alla ricerca dell’evanescente Azzurrina nei meandri del suo celebre e affollato Castello, abbiamo percorso un breve ma irto sentiero naturalistico corredato da pannelli esplicativi sulle specie arboree che costituiscono la flora autoctona. Dopo aver sfidato l’egemonica vegetazione si giunge nel cuore del villaggio: qualche casetta e il rustico ristorante Pacini (provate il loro dolce porcospino!). Oltre a visitare la fortezza, vale la pena sostare al belvedere, dato che offre una splendida veduta a trecentosessanta gradi sulla vallata. L’emozione di scorgere la curva costiera nei pressi dei lidi ravennati è sempre impagabile, e non si resiste alla tentazione di rivolgere lo sguardo ad ovest per individuare più rocche possibili, o provare ad indovinare quale montagna sia la più alta: San Marino? Carpegna? O forse quella laggiù è l’Alpe della Luna? Non mi dire che si vede il Fumaiolo!

Accanto a Montebello si erge Poggio Torriana, e il nostro proposito era quello di insinuarci nei suoi viottoli. Ad un incrocio, tuttavia, il cartello marrone Teglie di Montetiffi ha attirato la nostra attenzione. Datava ormai di una decina d’anni la mia ultima visita a quella minuscola località. Una sorta di sesto senso mi suggeriva di cambiare programma e inseguire il sole crepuscolare finché non avessi intravisto lo sperone roccioso su cui sorge l’Abbazia di San Leonardo.

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La brezza del tramonto, nuvole pastello e i rintocchi delle campane in sottofondo: scesi dall’auto per sgranchirci, ci siamo inebriati della pace assoluta che ci concedeva quel borgo che sembrava addormentato, come se tutti gli abitanti si fossero già rintanati nelle loro dimore, timorosi delle venture tenebre. Tutti tranne uno.

“Buonasera ragazzi! Volete vedere come si facevano le teglie una volta? Le teglie, quelle autentiche! Vi apro la porta, tutto gratis, si intende!” Ci siamo scambiati un’occhiata in cui abbiamo letto l’uno negli occhi dell’altro la stessa ardente curiosità, e non ce lo siamo fatti ripetere due volte.

L’arzillo signore che ci aveva fatto la proposta si chiamava Leo Reali ed era figlio di tegliai da generazioni: lo scantinato in cui siamo entrati era addobbato con le fotografie di suo padre e di suo nonno intenti nel lavoro manuale. Mentre ci raccontava la storia della sua famiglia, con aneddoti riguardanti la produzione delle tipiche teglie, sono riuscita a cogliere nei vispi occhi azzurri del vecchietto una scintilla talmente vivida da esserne ammaliata; sebbene non fosse un oratore particolarmente eccelso, ci narrava il suo passato con un intimo fervore difficile da scovare oggigiorno: bombardati come siamo dalle mille notizie lampo, a fatica qualcuna si addentra dentro di noi e superare lo strato superficiale di noncuranza che ci caratterizza. Nel caso di Leo, ogni frase era il frutto di un vissuto a cui voleva renderci partecipi, ed era perciò impossibile non restarne affascinati.

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E ora, reduce da un grigio lunedì d’acqua e caligine, sorrido al ricordo di quel pomeriggio sorprendente di incontri fortuiti. Niente accade per caso, e se la mia strada si incrocia con vite inaspettate è perché devo raccoglierne le storie, farle sedimentare nella mia anima e infine narrarle con intensità.

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